Tommaso Labranca – Una zampa più corta
una zampa più corta
Ho la sventura d’essere nato in inverno
quando l’addetta al controllo qualità degli scoiattoli distratta dal primo fiocco di neve che le cadde sul naso sbagliò la misura di una zampa posteriore.
E ora eccomi qui
ai piedi di un pino
enorme, svettante, che incombe
sulla mia incapacità di conquistarlo.
Con una zampa più corta
O forse è l’altra a essere più lunga?
Non l’ho capito mai
nemmeno quando
mi siedo e fisso le due zampe
disuguali e distese.
Quello che ottengo
quando sottraggo la misura della zampa destra
da quella della zampa sinistra
è l’incapacità di giungere ai rami in alto
da dove gli altri scoiattoli, i parizampa,
fanno dondolare le code con fierezza, seduti in tanti, in quattro,
ma ancor più spesso in due.
che insieme vivranno finché avranno ghiande.
Io arrivo a malapena,
e con fatica,
e con dolore a tutte le giunture,
al primo ramo, dove mai nessuno siede. E da lì osservo
la linea deturpata della speranza tarpata.
Vedo una scimmia-bambino che muore tra le zampe dello zio-scimmia.
Vedo un capo d’abbigliamento difettato
rimasto invenduto persino in un outlet.
Vedo la festa attesa e cancellata
per lutto cittadino.
Vedo tremila involucri
di gomme americane troppo zuccherine che recano la scritta
“Ritenta, sarai più fortunato”.
La statua di un cerbiatto in un asilo che rivela il bianco del gesso laddove si è rotto un orecchio.
Vedo tutto quanto gli altri scoiattoli si rifiutano di vedere
dai rami alti su cui si accoppiano nascosti tra le foglie.
Ma ancor più in su di loro so che c’è
la punta estrema di questo pino enorme.
E so altrettanto bene che io, un giorno, a malapena e con tanta fatica
là salirò e attenderò da solo
col muso verso il cielo
che il primo fiocco di neve dell’inverno venga a posarsi qui, sopra al mio naso.
hamore
Nei tour notturni senza meta né necessità mi spingo fino alla zona cittadina con le case Liberty in cui ho abitato al Tempo della Disco Music. Là mi sembra di incontrare per strada me stesso davanti all’ingresso della scuola media, mi vedo spiccare sul fondo nero della notte. Vorrei fermarmi a parlare a quel me stesso lontano. Mettermi in guardia rispetto alle delusioni dell’amore. Prospettarmi l’infinito shabbat di solitudine e inerzia forzata, che torna a ogni fine settimana, imposto dagli altri e non dalla divinità. Anticiparmi l’incolmabilità dello iato affettivo rispetto agli altri che parranno sempre vivere le relazioni con colori più intensi delle mie tinte opache.
Al punto che un giorno chiamerò il loro sentimento Hamore, con l’acca, perché diceva la maestra che c’è una differenza tra la preposizione e il verbo e per farcela capire accentava in maniera esagerata la vocale del verbo.
Così mi convincerò che per me arriverà al massimo l’amore, mentre tutti gli altri vivranno l’Hamore (e accento in maniera esagerata la prima sillaba).
Ed è una cosa irraggiungibile, più profonda, più intima, più complice, più esibitiva e più forte del normale affetto.
Ma è una forza che nasce solo dalla mia Visione Falsata De L’ Mondo e dall’ascolto di mielose canzoni italiane degli anni Settanta, con voci in falsetto da castrato barocco.
Canzoni che raccontano di giovani amori tra giovani corpi nell’Universo De La Perfettione senza brufoli, senza pancia, senza vestiti scelti dalla mamma, senza genitori tout court.
Sentirò maggiormente questa forza la domenica nel tardo pomeriggio, quando il cielo ha il colore dei minuti che precedono il crepuscolo nel tardo autunno. In quel momento si concentrano tutte le energie e le tristezze delle coppie che stanno per separarsi dopo il dì di festa trascorso insieme. L’atmosfera, sensibile alle radiazioni emesse dalle componenti eteree degli esseri umani, si ammorbidisce ed etimologicamente ammorba chi è escluso dal Grande Addio e lo osserva solo dalla finestra.
Troverò la luce di quel cielo che ha l’azzurro scialbo del ghiaccio in una foto amatoriale a pagina 24 di un vecchio numero di Fermoposta, sezione Coppia Cerca Coppia, Regione Nord.
Anche i meno meteosensibili capiranno che non è estate perché lei sarà in pelliccia. Lui la riprenderà con una polaroid poi cancellerà con una biro gli occhi.
Lei terrà la pelliccia aperta e oltre a un reggicalze nero sotto non avrà nulla, sfidando il freddo, mostrando le tette, un generale sfacelo della carne, con i capezzoli che guarderanno verso il basso. Sarà una foto fatta di sicuro di domenica nel tardo pomeriggio, quando il cielo ha il colore dei minuti che precedono il crepuscolo nel tardo autunno.
I due saranno stufi di pomeriggi domenicali affollati di bambini e suocere e visite di cortesia obbligata e cercheranno così trasgressioni a basso prezzo.
Lasciati i figli alla madre di lei, saranno fuggiti sul Ticino, avranno parcheggiato la Golf con l’autoradio accesa e si fotograferanno ascoltando una vecchia cassetta con gli stessi castrati barocchi che decenni prima avevano segnato i momenti più belli della loro focosità giovanile. Quando il loro Hamore non era ancora banalizzato dalla consuetudine.
la montagna dove muore l’amore
C’è sempre qualche malfunzionamento In certe grandi case popolari
Di solito è la luce delle scale
La serratura oppure un ascensore
O tutte queste cose in una volta
Entra chi vuole e allora vi entro anch’io
Confuso tra inquilini di ogni dove
Dai nomi che riecheggiano sapori
D’atlante o di romanzo d’avventura
Di trattorie gestite da cinesi
Di trafiletti da cronaca nera.
Usando un ascensore di servizio
Arrivo indisturbato sul terrazzo
Da dove guardo verso l’orizzonte
Come se stessi in vetta a una montagna Ma il suolo è solo a trenta metri appena Intorno non ho pini resinosi
Ma antenne paraboliche e camini
In basso non si estende alcuna valle
Ma un tratto urbano della tangenziale.
Compiendo un alpinismo alla rovescia
Discendo lentamente per le scale
E ascolto ad ogni piano, ad ogni porta
L’amore che agonizza in questo monte.
Decimo piano
Frammento di diatriba familiare
Lo schiaffo e dopo un grido di dolore
Un cellulare suona inascoltato
Nono piano
I pianti di bambini proletari
Voci stizzite in turco o in albanese
Il fischio di una pentola a pressione
Ottavo piano
Cozzare di stoviglie scompaiate
“Ma dove credi che li trovo, i soldi?”
Le sedie trascinate per dispetto
Settimo piano
Applausi in qualche quiz per milionari
La lite con la figlia adolescente
Sei nomi slavi accanto a un campanello
Sesto piano
Rimbombi esagerati di un home theatre
L’odore di pietanze misteriose
“Non tornerai alle quattro anche stanotte?”
Quinto piano
Offese orrende in calabrese stretto
Silenzio: ed è la cosa più inquietante
“Lavoro tutto il giorno ed ecco il grazie”
Quarto piano
Il disco hip hop di un figlio solo a casa
“Sia maledetto il giorno che son nata”
Il vento che fa sbattere una porta
Terzo piano
Abdoul che prende a schiaffi la sua Amina
Un rutto e lei che dice “Sei un maiale”
La sigla tronfia di un telegiornale
Secondo piano
“Sei stata in giro tutto il giorno, troia”
Un vecchio sordo grida contro il gatto
“Ma quando ti decidi a lavorare?”
Primo piano
“In questa casa non funziona niente”
“E questa merda tu la chiami cena?”
“Un giorno o l’altro compirò una strage”
Ecco il portone e l’atrio senza luce
Esco correndo e non mi volto indietro. Finché non giungo in un parcheggio oscuro. Mi trovo circondato dalle auto
In cui stanno nascendo nuovi amori.
Vorrei bussare a quei cristalli oscuri
Vorrei mettere fine a quegli amplessi
Vorrei gridare a quelle coppie ingenue
“Non date fede a Céline Dion, mendace
Che canta del respiro degli amanti
Che nel mattino dormono abbracciati.”
Indicherei la torre minacciosa…
“Ogni montagna chiede il suo tributo
E questa è più crudele d’ogni altra.
La sveglia, gli OGM, i palinsesti
Vi spegneranno un po’ alla volta il cuore.”
crain @ de discotek
I
Amore spento
Fuoco già estinto
Durò soltanto
Per quel momento
Che mi parve incanto
Un portento
Dal cielo giunto
Si mutò in vento
Che mi prosciuga dentro
E fa di me un torrente
Che non ha più fonte
Non ha più la sua corrente
E l’inverno attende.
II
Discoteca scadente
Sulle rive del Brenta
Finta estate caliente
Grasse in autoreggenti
Qualche triste studente
Io casuale cliente
Tu improvviso frammento
Di un prezioso diamante.
Sguardo che è rapimento
Di Cupido instrumento.
Mi colpisce violento
Il sorriso convinto
Come spada da kendo.
Come zefiro aulente
Che discende da un monte
Sulla pista tra gli unti
Si avvicina sospinto
Il tuo corpo discinto.
Ora giunti
Or disgiunti
Alla fine ti arrendi
Alla fine ti accendi
Non son baci, ma accenti
Di un amore impaziente
Di una attesa urticante.
Quando si placa l’onda
Mi sbilancio e domando:
“Il tuo numero?” e attendo…
Tu ci pensi un secondo
Poi mi dici “C’ho un Wind
Tre due otto sei venti…”
Gesto da adolescente
Uno squillo soltanto
Per sentirti dir “Pronto?”
Per mostrarmi presente
Ma la voce è gelante:
“Numero inesistente”.
III
Di neve
Un manto
Discende
D’argento
Pesante
Sul sogno si posò.
Sul cuore un guanto
Nero distendo
Fatto è d’amianto
Spegne all’istante
Ogni accenno al sentimento
Che mi fa spavento
Che mai più in me riaccendo
Ti passo accanto
Freddezza ostento
Or saldo il conto
Poi me ne andrò.
IV
Amore spento Fuoco già estinto.
Le quattro e trenta…
Mentre l’oriente
S’accende
Il buio resta in me.
cose fatte nell’attesa immaginaria
Ho atteso un tuo sms questa notte, ma non è mai giunto.
Mi è uscito del sangue dall’orecchio destro
mentre il velivolo su cui forse viaggiavi attraversava lo spazio aereo sopra casa mia.
Ho scaricato il Magnificat di Bach da un newsgroup di musica barocca.
Ho stampato un foglio A4 con scritto il tuo nome.
Ho controllato se c’era una tua mail.
Non ho trovato una tua mail.
Ti odio perché non mi hai scritto una mail.
Ho buttato il foglio A4 su cui avevo stampato il tuo nome.
Ho passato l’aspirapolvere.
Ho risposto alla mail che non mi hai spedito.
Non avrei dovuto, ma ho risposto.
Non volevo farlo, ma ho risposto lo stesso.
Mi sono pentito di aver buttato il foglio A4 con stampato il tuo nome.
Ho pulito la gabbia del criceto.
Ho mangiato una pesca bianca, ma non era buona.
Ho pensato che avrei fatto meglio a non scriverti più.
In fondo chi sei?
Ho sentito che si è alzato il vento e forse pioverà.
Mi auguro che pioverà così tutti resteranno a casa.
Ho creato una cartella in cui metterò le tue mail.
Ho avuto il sospetto che quella cartella resterà vuota.
Ho avuto la sensazione che il tempo non passi.
Ho avuto la sensazione che tu non esisti.
Ho avuto la conferma che tu non esisti.
Ho cancellato la cartella in cui pensavo di conservare le tue mail.
Sono uscito.
Pioveva, ma sono uscito lo stesso.
hjärta
Ed una sera, verso le diciotto,
ci fu l’appuntamento nel parcheggio.
Era un mercoledì d’inizio autunno,
trenta settembre del duemilanove.
«Ho parcheggiato dove non potrei,
in quegli spazi per le donne incinte.
Lo faccio apposta, sai, non trovo giusto
che a noi, donne senz’ombra, sia negata
dal papa e dal governo ogni premura.
Persino nei parcheggi si diffonde
la discriminazione di chi è sola…»
Ti presi per un braccio, sorridendo.
«Ma dai», ti dissi. «In caso di controllo
dirò che sono il tuo caro compagno.
E che proprio stanotte tu hai saputo
di quella goccia che è sfuggita al nulla.»
Hai riso piano a quella citazione
con cui comincia un libro che alle medie
io lessi senza alcuna convinzione
costretto da una prof che non capivo
se fosse di sinistra o antiabortista.
Hai quello stesso libro a casa tua
e attende infine una sistemazione
diversa dalle mensole sbilenche
su cui traballa in pile un po’ precarie.
Per questo ci trovammo a Carugate:
per acquistare i Billy o forse i Flärke
su cui riporre tutti quei volumi
di cui leggerò i dorsi di sfuggita
le rare sere in cui verrò a trovarti.
Avranno i tuoi volumi quella requie
che noi non ritroviamo in nessun campo,
instabili nel cuore e nel lavoro
senza un affetto vero o un posto fisso.
Per nostra scelta, non per costrinzione,
ci abbandoniamo a vite non seriali,
a collaborazioni temporanee,
affetti light e poco impegnativi,
amori per email tra luoghi estremi
finiti se non scrivi per un giorno.
Entrando nel negozio tu mi hai detto:
«Facciamo tutto come tradizione,
coi fogli per segnare gli scaffali,
la borsa gialla che lasci alle casse,
col metro in carta e le matite in legno.
Ricordi quando eran colorate
di giallo e blu, non grezze come adesso?»
Sin dagli ambienti ove comincia il giro
sfiorammo i nostri simili in silenzio.
Ben poche le famiglie e si capiva
dal mare di palline, quasi vuoto.
Non c’era alcuna luce solidale
negli occhi di chi a noi era fratello.
Passavano le coppie con superbia
mostrando i vari gradi dell’amore.
Gli sguardi di chi è ai primi appuntamenti
e timido si studia perché solo
nei banner che ti invitano su Meetic
si ride e tromba fin dal primo incontro.
La noia delle storie prolungate
che forse troveranno nuova linfa
nei cambiamenti dell’arredamento.
Girammo senza fretta e senza accenni
ai nostri guai lasciati nel parcheggio.
Tacemmo di contratti e sentimenti parlarne,
in fondo, non sarebbe stato
che un interscambio di insoddisfazioni.
Scrivevi le tue scelte sulla lista.
Pensavo a casa tua e ti consigliavo
quell’altra forma o quell’altro colore.
«Deve piacere a me!» dicesti secca.
Ridendo poi accettasti la proposta.
«D’accordo, per stavolta ti accontento.
A patto che si resti nel mio budget.»
Ci dirigemmo verso il ristorante
sfiorando un tizio che col suo compagno
gridava per imporre al muto partner
la tinta delle tende del tinello.
«Le diciannove e trenta… ed è già buio…»
dissi a me stesso mentre mi sedevo a
ccanto a una finestra oltre la quale
scorreva lunga sulla tangenziale
la fila di chi andava verso case
dove vigeva l’ora della cena.
Intanto tu parlavi al cellulare
frasi accennate, mmh, mezze parole.
Ma io non t’avrei chiesto mai chi era,
così come tu non hai mai saputo
con chi avevo scambiato quei messaggi
mentre eravamo accanto alle cucine.
Un patto di reciproco pudore,
il fingersi di ghiaccio dentro il cuore.
Io non mangiavo mentre tu parlavi.
Contavo le polpette dentro il piatto,
fissavo il lago scuro dei mirtilli,
nel tuo, la chiazza rosa del salmone.
Poi quando hai chiuso hai detto solo: «Scusa…»
Alzando il bicchierone di cartone
brindammo insieme con il Lingonberry
al nuovo arredo del tuo appartamento.
Ne discutemmo ancora, disegnando
possibili scenari del salotto
sul tuo Moleskine nero già riempito
di cifre, conti, schemi e riflessioni
che io mi costringevo a non guardare.
Quanto restammo lì a schizzar piante,
a consumare una cena svedese,
con dietro le finestre la Brianza?
A un certo punto tu dicesti «È tardi»
e allora ci affrettammo al magazzino.
Dai fogli sparsi che tenevi in mano
leggevi gli scaffali e i corridoi.
Io prelevavo i pacchi e controllavo
che il serial number fosse quello esatto.
«Quanta fatica fatta per riporre
dei libri che ho comprato e mai sfogliato.
A volte, sai, mi sento così oca,
con tre nozioni senza alcun legame.»
Io ti citai Panofsky che diceva
quanto fosse europea la dispersione
della cultura senza un epicentro.
«Vuoi che ti presti il libro?» – «Ma sei matto?
Con tutti quelli che non ho ancor letto…»
La fila in cassa, il laser ed il timore
d’avere superato il massimale
della tua Visa, in fondo è fine mese…
Uscimmo col carrello troppo pieno
dal clima artificiale del negozio.
Provai quasi una gioia respirando
l’umidità d’autunno a Carugate.
Una foschia che appena percepivo
rendeva astratta l’aria nel parcheggio.
E senza una parola io compresi
che tu condividevi quel paesaggio
di luci gialle e costruzioni basse.
Lo amavi più di una terrazza al mare
di palme, spiagge e isole lontane.
Premesti il tasto sul telecomando
ti salutò la Panda in un festoso
accendersi di luci lampeggianti.
Poi caricammo insieme i pacchi piatti.
Ti dissi: «Ma davvero sei sicura
di scaricare tutto, tu da sola?»
«Ci penserà un vicino domattina.»
«Promettimi però che sarò io
ad aiutarti dopo nel montaggio.
La brugola per me non ha segreti…»
La tua breve risata fu sommersa
dal gracidare degli altoparlanti:
chiudevano il negozio, già le dieci!
Ci allontanammo in direzioni opposte
verso le nostre case modulari.
Diciotto gradi, apparve sul cruscotto.
Tra poco il freddo avrebbe messo fine
al denudarsi estivo dei burini.
Giungemmo quasi nello stesso tempo
ai piccoli paesi in cui viviamo
per scelta, per rivivere ogni giorno
lo stupore dello scendere in città.
Avrai anche tu bevuto del tè verde,
sfogliato un libro o scritto qualche mail.
La stessa delusione nel vedere
l’assenza di risposta a quel messaggio
inviato appena usciti dal parcheggio.
Spente le luci delle nostre Lykta
(bianca la mia, azzurra la tua, invece)
ci accolse il nostro materasso Sultan
inutilmente ad un piazza e mezzo.
quando volerò davvero
Un giorno vi stupirò
per quanto andrò lontano
lasciando questo posto da custode
dei vostri beni mentre voi eravate
dimentichi in piacere a me proibiti
e che forse non esistono nemmeno.
Sarà la volta in cui volerò davvero
un giorno dopo la mia cremazione.
Bruciate insieme a me tutte le cose
che troverete,
bruciatele così, senza sfogliarle,
senza mai aprire scatole o cassetti
né scompattare file.
Bruciate tutto
senza ricorso alle benedizioni.
Dall’alto di un colle
che vi indicherò
lasciate che quei resti della scorza
s’involino davvero verso i luoghi
in cui non sono mai stato,
in cui mi hanno rifiutato.
Frammenti della cenere grigiastra
arriveranno fino alle città
in cui avete goduto una parvenza
di allegria ripetitiva e falsa.
Altri frammenti, che forse erano ossa,
si infileranno dentro quelle stanze
disordinate, laddove vi ha mentito
l’abbraccio monocorde della carne.
Qualcosa andrà a fermarsi nelle orecchie
di chi non ha voluto mai ascoltarmi.
Ancora un grumo volerà negli occhi
di chi non mi ha mai letto per principio.
S’infilerà qualcosa sotto le unghie
di mani ormai anziane
che mi picchiavano in quinta elementare.
E tanta cenere come coriandoli invisibili
celebrerà cadendo quelle feste
a cui io non ricevetti mai un invito.
Un lembo di qualcosa del mio corpo
sarà più audace e sceglierà di andare
a sciogliersi sul labbro di chi un giorno
non volle ricambiare qualche bacio.
Ed altri, ed altri ancora pioveranno
su vecchi quotidiani di quei giorni
in cui m’accade qualcosa di importante,
ma cosa fu non lo ricorderò.
L’ultimo soffio di cenere, alla fine,
scenderà lento sulla cima di un pino enorme dove
a malapena e con tanta fatica
sarà arrivato uno scoiattolo segnato da disparità alle zampe.
Sarà l’ultima cosa che avrà fatto.
Stremato da uno sforzo troppo grande
che gli ha tolto il fiato, ma non la meraviglia
di vedersi scendere sul naso
un brandello di quello che di me sarà restato.
Lo crederà il primo fiocco di neve dell’inverno,
poi chiuderà i suoi occhi
e sarà felice.
Hamore è tratto da Il piccolo isolazionista (Castelvecchi, 2006)
Crain @ de discotek faceva parte della raccolta Poesie dell’agosto oscuro (pubblicazione privata, 2005)
I testi fanno parte del reading Una zampa più corta, con musiche di Fabio Zuffanti. Sono liberamente copiabili, citando la fonte.
gennaio 2010