Tommaso Labranca – Una rubrica brutta e rozza – Le recensioni per Leggere 1995-1996
Tommaso Labranca
Una rubrica brutta e rozza
le recensioni per Leggere, 1995-1996
versione elettronica scaricabile da www.tommasolabranca.eu
Introduzione
Era il 1995, non ricordo esattamente il mese. Tommaso Pellizzari, ai tempi caporedattore della rivista Leggere della Archinto Editore, mi chiese di scrivere una recensione al mese dedicata a quei libri inutili, brutti o as- surdi di cui nessuno parla, liquidandoli con la solita stupida affermazione: “E’ come sparare sulla Croce Rossa”, o di cui, addirittura, qualcuno parla bene per strane colleganze o scambi di piaceri. La prima recensione riguar- dava il romanzo Cigno attribuito all’allora top model Naomi Campbell. Lo scritto apparve al centro del giornale, ma poco dopo quelle recensioni fu- rono spostate in ultima pagina, sotto il titolo di In guardia!. Fino ad allora quella pagina raccoglieva pensierini in libertà dello scrittore adelphiano G. Rugarli, trasferito in prima romana (sarebbe la prima pagina di un fasci- colo, quella dopo la copertina). Rugarli scrisse una lettera all’editore della rivista in cui diceva che si sentiva offeso per essere stato sfrattato da una rubrica “brutta e rozza” come la mia in cui trattavo male i libri di Pansa.
Ma quello non fu l’unico simpatico episodio che costellò quei pochi mesi di recensioni. Per esempio, il professor Stefano Zecchi si indispettì talmente per la recensione al suo libro che, tramite il suo avvocato, minac- ciò querela.
La recensione del libro della Llera Moravia fu l’unica a subire una piccola censura su alcune parole, chiesta dall’editrice, Rosellina Archinto in persona. Qui trovate la versione originale.
Dopo la recensione del libro di Sandro Curzi, Nico Orengo su La Stampa disse che ero un asino perché invitavo a bruciare un libro e i libri, anche se brutti, non si bruciano mai. Naturalmente Orenco aveva e ha ra- gione. Sia sui libri sia su la mia asinità.
Dopo la recensione del suo libro su Ulisse, Luciano de Crescenzo mi inviò un suo libro con una dedica molto divertente.
Il titolo di cui vado più fiero è quello dedicato al libro di Rutelli, al- lora sindaco di Roma di provata fede ratzingheriana. Tramutai la sigla SPQRnell’acrosticodi“ScrivePirlateQuestoRutelli”.Danotarepoichea scrivere effettivamente quel libro fu il futuro ex-ministro Gentiloni.
Ma il momento di maggiore gloria di quella breve stagione fu quando dovevo recensire il libro di Francesco Alberoni Ti Amo, libro di una bruttezza e di una vuotezza sconsolanti. Non sapevo davvero che cosa scrivere. Pellizzari chiamava a scadenze di dieci minuti per avere il testo. Ed ecco l’illuminazione: scrissi di getto una recensione in versi, sul modello delle vecchie, volgarissime Osterie e la intitolai Osteria degli Alberoni. La versione originale, che trovate qui, era più lunga di quella effettivamente pubblicata.
Tommaso Pellizzari mi disse che mentre vedeva comparire il fax e leggeva i versi non sapeva se ridere o piangere. La recensione venne letta da Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, conduttori dell’indimenticato pro- gramma culturale L’altra edicola su RaiDue, che chiesero di ospitarla nella propria trasmissione. Così organizzammo un coro di intellettuali dell’edi- toria milanese che chiamai La Crema de la Intellectualidad, ispirandomi a un vecchio cha cha cha messicano dal titolo Madrid che avevo trovato chissà dove.
La Archinto Editore stava traslocando e i locali della vecchia sede, una bella struttura con colonne e soffitto a volte, erano vuoti. Dopo alcune prove (e una superfesta) vi radunammo quindi un pomeriggio il meglio degli intellettuali milanesi, da Alberto Rivaroli a Ranieri Polese, da Stefania Ulivi alla stessa Rosellina Archinto e davanti alle camere di una troupe RAI il coro si esibì. Il successo fu strepitoso e passammo anche a Blob. Fummo chiamati all’Altra Edicola altre due volte, con successo e intensità crescenti. La seconda volta, in vesti da montanari con gerle, fiori e pantaloni alla zuava, eseguimmo negli stessi locali della Archinto Quel mazzolin di libri che viene da Segrate, un testo contro la Mondadori scritto da Tommaso Pel- lizzari (che più tardi avrebbe pubblicato per quella casa, ma il suo caso è meno grave di quello di Casarin…).
Il terzo coro raggiunse vette di un misticismo inaudito. Ancora una volta testo e direzione di Pellizzari: si trattava di Questo piccolo grande au- tore, la versione del pezzo baglionesco riscritto proprio da Tommaso Pel- lizzari pensando a Proust per Labranca Remix. Pellizzari diresse un coro di uomini in black tie e donne in lungo nello studio del TG Lombardia in corso Sempione. Alle dieci del mattino. Assolutamente da brivido il finale, nella penombra, quando il maestro Colombo sullo spegnersi delle voci, toccando un tasto produsse un lungo, straziante nitrito.
Dopo quel coro, la trasmissione di Ronchey e Scaraffia fu misteriosamente soppressa…
Rileggendo queste recensioni mi sono reso conto di alcune cose. Per esempio che sono stato troppo cattivo con persone che in fondo non lo meritavano (come Cipriani) e di non essere stato abbastanza cattivo con gli altri. Mi sono soprattutto reso conto di come nessuno oggi ricordi più uno solo di quei titoli. Libri pubblicati per fare catalogo, per sfruttare una effimera fama momentanea di qualche personaggio. Pubblicizzati sulle prime pagine dei quotodiani, presentati in eventi mondani con Bruno Vespa a fare da cerimoniere e poi, dopo nemmeno quindici giorni, spediti a pacchi dai Reminder’s.
Sic transit…
Cigno
di Naomi Campbell
Se non sono diventato una top model è a causa dell’inquinamento tremendo e dello smog di Milano che ha fatto soffrire la mia carnagione. Questa è la conclusione cui sono arrivato leggendo il romanzo Cigno di Naomi Campbell, 400 pagine d’amore, di lusso e di thriller ambientate nell’affascinante mondo della moda mondiale.
Del libro originale qui si dirà poco o niente. Non serve affrontare il volume con l’intenzione di distruggerlo; la Campbell, infatti, ha scritto un romanzo decente e ha soprattutto un grande merito: non è partita con l’in- tenzione di fare l’intellettuale, ma conscia di scrivere un Harmony prolun- gato. Libro a tratti apprezzabile. Sono bellissimi i punti in cui l’A. si autocita, dicendo, per esempio, “C’erano molte modelle famose, persino Naomi Campbell!”. Questo mi ha ricordato un mio vecchio sogno: diven- tare talmente celebre da laurearmi con una tesi su me stesso.
Meno riusciti sono alcuni punti della parte milanese dove Naomi è un po’ massimalista (gli italiani sempre allupati e perennemente in ritardo) e persino imprecisa (come può dire che la musica dei club milanesi è pessima, noi che vantiamo glorie come i Cappella, i Corona e gli Usura?). Ma nel complesso sono minuzie trascurabili se raffrontate a ciò che la Mondadori ha saputo fare con la versione italiana di questo libro.
Partiamo dal presupposto che il romanzo non sia stato scritto da Naomi, ma da tale Caroline Upcher, citata anche nel copyright. Tra una sfilata e un volo sul Concorde, Naomi si sarà limitata a dettare ciò che le pas- sava per la mente e Caroline, diligentemente, metteva il tutto in buon inglese.
Fatica sprecata, poiché tutta la cura lessicale e grammaticale della Upcher è stata sistematicamente smantellata dalla traduzione italiana, in- feriore persino a quella dei manuali d’uso di lavastoviglie prodotte a Dan- zica. Colpevole di questa ciofeca è la signorina Roberta Rambelli.
Evidentemente la signorina Rambelli ha passato tre settimane con la EF a Londra. Perché è stata scelta per tradurre questo libro? Due possibilità: o per l’assonanza tra i cognomi (Campbell/Rambelli) oppure perché possedeva una raccomandazione potentissima.
Apprezziamone alcune chicche: a pagina 84 colpisce l’incapacità assoluta della signorina Rambelli di rendere in italiano il doppio senso della parola book, inteso in inglese sia come libro sia come documentazione fo- tografica della carriera di una modella. Qui e là conserva le virgole, tipica- mente anglosassoni, dopo la congiunzione e. Là e qui usa nelle stesse frasi il pronome tu e il pronome voi. Ma raggiunge un vertice quando traduce uptown, ossia periferia, con la parte alta della città. Brava, anche da parte di William Weaver.
Il cognome Rambelli fa pensare alla forza distruttrice di Rambo, ma forse è più esatto il parallelo con Rambaldi: in fondo, entrambi creano mostri. Interessante è anche l’osservazione del risvolto di copertina, vera e propria miniera di minimalia su cui riflettere. Già alla prima riga della nota biografica, dopo appena due parole, i redattori Mondadori sono riusciti a infilare un refuso: uno spazio di troppo prima di una virgola. Un sassolino all’interno di un articolo di quotidiano. Un macigno sulla copertina di un libro che si propone come una produzione ricca, visto il gioco tra parti lu- cide e parti opache che ne caratterizza le immagini.
Qualche riga più in là si dice che Naomi è amica di famosi musicisti [sic!] come Aretha Franklin, Michael Jackson, Madonna, Boy George e Ge- orge Michael e che nel 1994 ha inciso il suo primo disco per la Sony. Si vuole sottolineare una relazione tra i due fatti? E’ una velata accusa di clien- telismo? Signorilmente, la Campbell non ha reagito. Non ha fatto come le Carlucci che vanno in bestia tutte le volte che si chiede loro se è vero che sono in tivù perché amiche di Cirino Pomicino.
Un cuore perso
di Catherine Spaak
Non ho mai visto nulla di più orripilante della foto che appare sulla quarta di copertina del romanzo Un cuore perso scritto senza pudore dall’ex attrice Catherine Spaak e pubblicato con ancor meno vergogna dall’ex casa editrice Mondadori.
La Spaak vi è colta nel momento della creazione letteraria: immersa in profonda meditazione, lo sguardo lontano… Catherine indossa una camiciola in jeans e sfoggia occhialoni in tartaruga modello Palomar. Regge nella mano destra una lussuosa stilografica (bic? macchine da scrivere? computer? Tutto troppo plebeo), mentre la sinistra è portata alla bocca, forse a nascondere la protesi dentaria oppure, più verosimilmente, a met- tere meglio in mostra una sorta di cucù da polso Bvlgari in oro massiccio; un orologio che, portato regolarmente, procura lo stesso effetto di tre ore di bilancieri tutti i giorni.
Una foto falsa fino all’irritazione, in cui la Spaak, già finita in quel cimitero degli elefanti per attrici in disarmo che è il giornalismo, vuole ora a tutti i costi apparire scrittrice, senza riuscire a capire, povera donna, che non basta una penna e lo sguardo ispirato per poter scrivere. E i risultati si vedono: il libro fa letteralmente schifo.
Soporifero come una puntata di Harem. Inutile come la marchetta (ossia finto articolo con scopo pubblicitario) che la Mondadori ha acqui- stato su Sette qualche settimana fa per lanciare il libro.
Al termine di una difficile interpretazione dell’orrida pastiche spaakiana ho capito a grandi linee la trama del romanzo: lei è una giornalista smorfiosa e viziata che incontra un burinesco autore teatrale rifugiatosi nell’ellenica isoletta di Mikonos per eludere un certo schifo culturale ita- liano: “…terza pagina del Corriere, supplemento del Venerdì di Repubblica, Costanzo Show, Babele, Abele, Caino, cazzo, Campiello, Strega…” (pag. 72). Insomma, tutto quello schifo di cui sono parte inscindibile anche i salotti televisivi della Spaak, a questo punto chiaramente ipocrita.
Sia lui sia lei non sono proprio di primo pelo e me li vedo mentre camminano lungo la spiaggia come gli attempati protagonisti di un vecchio spot Rockford. A un certo punto l’incanto è interrotto da un dramma: la madre di lei sta morendo di cancro ai polmoni in un ospedale di Parigi. Non fatevi impietosire: la madre è più perfida della señorita Enriqueta nella telenovela Andrea Celeste. La Spaak va dunque a Parigi, lui resta a Mikonos e sapete come avvengono certe cose… insomma, in un sol colpo Catherine perde madre e amante.
L’unico personaggio degno di nota di tutto il romanzo è la capra Medea, cui la Spaak, vittima dei primi sintomi di demenza senile, fa il bagno e fa ascoltare Mozart con il walkman.
Per raccontare questa stitica storiellina l’indimenticata interprete di Io non mi innamoro più in coppia con Johnny Dorelli (hit del 1973) fa un largo uso di flash-back, particolarmente insostenibili quando entra in scena l’immancabile tata che le preparava i biscotti da piccola. I flash-back e gli eventi del presente oltre che essere conditi da una continua pubblicità a marche di sigarette, sono spesso indistinguibili tra loro.
La terza volta in cui si è perso il filo del racconto si pensa di essere di fronte al solito dilettante che ha pubblicato solo grazie al proprio nome conosciuto. Ma giunti a pagina 61 ecco l’illuminazione! La seconda riga del capitolo 9 recita: “Un corvo sguaiato commenta la scena da lassù, poi tace”.Eccodadovenascel’incomprensibilitàdellinguaggiospaakiano:dalle massime frantumate del Corvo Parlante della Settimana Enigmistica. Que- stavol igliovel acaga odoio:no atequest tailcons ncompr tadilibro!
“I giorni contati” di Paolo Guzzanti
Ogni volta che sotto il tergicristallo della mia auto trovo il volantino “Clamorosa svendita per fallimento”, penso istintivamente a Paolo Guzzanti. Non per la svendita, quanto per il fallimento. Dagli inseguimenti a Craxi tra un suk e l’altro allo sfumato impegno politico nel Patto, dalle trasmissioni tv con effetto sbraitante à la Sgarbi (audience rilevata: i parenti più stretti) all’imbarazzante flop di Bar Condicio, Guzzanti pare non azzeccarne mai una. Non contento, approda ora al libro. Si chiama I giorni contati ed è edito da Baldini & Castoldi.
La quarta di copertina ci avvisa: questo è il primo romanzo di Paolo Guzzanti. Se si trattasse di un edizione con copertina rigida in tela penserei si fosse verificato uno scambio di sovracoperte. Dentro, infatti, il romanzo non c’è. Ci sono invece ricordi sparsi della vita di Guzzanti.
Mettiamo, allora, che questo libro è un’autobiografia. Genere ancora più pericoloso del romanzo, poiché narrando se stessi scappa sempre quel paio di episodi che magari hanno un grande valore personale, ma di cui al lettore non interessa nulla. Anche leggendo l’autobiografia di Casa- nova (che ne ha fatte più del nostro scarmigliato giornalista-scrittore) scappa qualche sbadiglio; figuriamoci quanto si sloga la mascella leggendo questi ricordi guzzantiani.
Clamoroso esempio di autosciacallaggio, Guzzanti ci infligge i suoi souvenir giovanilistici prendendo spunto dalla morte del padre. Mentre per tutti noi la morte del padre è un dramma privato, per chi ha redatto il risvolto di copertina del libro essa è “un campo semantico di attese e di prove”.
Guzzanti, che nel libro si dipinge come un eroe intelettuale e solitario, nato senza conoscere né la Nutella né la televisione, cade miseramente già a pagina 5, dove perde la sua aura quando pone la dedica a parenti e amici. Ma la cosa peggiore del libro è il linguaggio. La pochezza di certi episodi è sepolta sotto una valanga di orride invenzioni immaginifiche, di metafore sfasate e di tentativi di porsi come grande scrittore solo perché si è complicata la struttura della frase. Esempi: “la valigia aperta masticava camicie e calzini”, “una notte che non aveva il coraggio di puzzare di pesce, ma di abbronzante”, “l’Adriatico stava cadavere sulla riva”, “lo sfintere del gallo batteva a spasimo le sistole e le diastole della morte”, “faceva un freddo bianco di latte di nebbia che non macchiava le mani”. Ci siete ancora? E pensate che sono solo arrivato a pagina 20. Concedetemi un’altra perla dell’idioletto guzzantiano, a pagina 119, a proposito della nonna, si legge: “Era l’estate del 1952 in cui non potevo sopportare che lei morisse”. Al di là dell’instabilità sintattica, viene da pensare che, invece, nell’estate del 1951 il Guzza non vedesse l’ora che la vecchia crepasse e nell’estate del 1950 ar- rivò persino a metterle il perborato nel semolino.
Poiché buona parte del libro si svolge a Riccione, il risvolto di copertina non può mancare di citare Fellini (il quale, per altro, era di Rimini). Ma il vero Maestro che si cela dietro queste pagine non è il celebre regista, bensÏ un altrettanto celebre giornalista. Ho sempre sospettato che Guzzanti mirasse a emulare Enzo Biagi. Anzi, più i suoi strilli e le sue convulsioni lo allontanavano dalla compostezza biagiana, più sentivo forte il legame. Ora quel sospetto è confermato: I giorni contati altro non è se non l’emulazione (molto) fallita di Disonora il padre. Comparare per credere.
Io, Monna Lisa
di Donatella Pecci-Blunt
La parte più utile e interessante del libro Io, Monna Lisa, firmato da Donatella Pecci-Blunt (pron. Patcheeh-Blahnt) ed edito da Spirali/Vel, resta la foto in quarta di copertina. E’ utile perché se anche voi abitate nella Bassa Padana potrete ritagliarla e usarla come catarinfrangente nelle giornate di nebbia più fitta. E’ interessante poiché incarna un’evoluzione fon- damentale: se le nobildonne dell’Ottocento tenevano un salon, quelle attuali si travestono da salon. Prima di farsi fotografare, infatti, la DPB si è mimetizzata da salotto buono, dandosi la calce viva sul volto, mettendosi due lampadari di Murano alle orecchie e due abat-jour ai polsi, indossando la tappezzeria di un divano e ponendosi sbarazzinamente sulle spalle un tendaggio in broccato. Insomma, la stessa tenuta con cui appare ogni settimana (chissà perché) su tutti i periodici Rusconi, ritratta a balli, feste, cene, vernissage, premiazioni, compleanni e interramenti.
La DPB, qualificatasi nelle note come imprenditrice di bellezza e di arte, dopo aver deciso di lasciare perdere ombretti e fondotinta, ha scritto in 134 pagine la storia di Lisa Gherardini del Giocondo, ossia di colei che fece da modella per il quadro più inflazionato e sopravvalutato dell’intera storia dell’arte: la Gioconda di Leonardo. Il libro è diviso in due parti tra le quali, purtroppo, non c’è nessuno spot pubblicitario.
Nell’avvertenza, la DPB ci dice di aver “volto nell’italiano di oggi” un manoscritto di Monna Lisa del Giocondo. Stratagemma originale, cui poi si sono ispirati, plagiandolo, anche sir Walter Scott, Alessandro Manzoni e Umberto Eco.
Donatella ci avverta anche di avere “eliminato la prolissità e la ridondanza del fiorentino cinquecentesco”. Nell’operazione è stata comunque attenta a compiere danni sufficienti.
Alcuni esempi: “dal nostro talamo non rampollavano figli” (pag. 19) oppure “fuori scoccava in diagonale il lampo nero di qualche residua rondine” (pag. 26). Non ha mancato, poi, di mettere in bocca a una donna fiorentina del cinquecento espressioni improbabili come “il vostro status” (pag. 32), postprandiale e glaucopidi (pag. 38). La sciura Gioconda, moglie del commerciante Francesco Gherardini, convince il marito a farle fare un ritratto da Leonardo, lamentandosi di avere in casa solo opere del Granacci, Jacopo di Sandro e Antonio Michi, ossia di “piccoli maestri, dei minori e per di più un po’ sorpassati”. Non contenta, poco più avanti la DTP fa dire alla sciura Gioconda: “Le quotazioni di Leonardo sono alte, certo, ma sono destinate a salire ancora”.
Cara Donatella, in questo modo si saranno espresse le ricche signore che visitavano le gallerie d’arte, di cui lei conduceva le PR, di fronte alle croste figurative di alcuni pittorucoli salottieri e mondani, non certo una giovane donna fiorentina del Cinquecento.
Ma le sembra possibile che nel XVI secolo si parlasse di quotazioni di un pittore? Le sembra possibile che la Gioconda potesse parlare di alcuni artisti suoi contemporanei già definendoli minori? Ma lo sa che per certi giudizi di valore sono necessari a volte secoli?
Queste delizie storico-artistiche sono intervallate dai continui zompamenti che la Gioconda compiva nei letti di mezza Firenze e che spiegano il nome dato dagli Inglesi al quadro che la ritrae, ossia Mona Lisa.
Se questa annotazione vi sembra pecoreccia, ascoltate ciò che la DPB dice a pagina 48 a proposito delle prestazioni di uno dei suoi numerosi amanti: “non so se il merito fosse dei passeri o, come scherzava lui, della mia passera”. Se qualcuno tra i lettori ricorda di aver fatto il CAR insieme alla nobildona Donatella Pecci-Blunt me lo faccia sapere.
Il compagno scomodo di Sandro Curzi
Per un fortuito caso del destino ho alternato la lettura de Il compagno scomodo di Sandro Curzi (edizioni, serve dirlo?, Mondadori, lire 25.000) a quella di Take it like a man, l’autobiografia di Boy George (Pan Books, £ 5.99). Curzi e Boy George non hanno nulla in comune, a cominciare dalla pettinatura, ma proprio le differenze tra queste letture parallele mi hanno fornito materiale di riflessione. Per esempio, Boy George scrive la sua autobiografia a soli 33 anni e riesce a riempire 572 fitte pagine. Sandro Curzi traccia questa summa della sua carriera a 66 anni e non riesce a mettere insieme più di 115 pagine. Numero di pagine puramente nominale, poiché la quantità reale è di molto inferiore. Oltrepassata l’orrida copertina con ritratto curziano, ci imbattiamo nell’ordine in: una pagina bianca, un’altra pagina bianca, pagina con il nome della collana (Ingrandimenti: si riferirà al corpo usato per gonfiare il testo?), frontespizio, indice, pagina con solo il titolo del libro, pagina con dedica a Candida, che ha scelto il mio mestiere, probabilmente trattasi della figlia che, quindi, vedremo presto magari come corrispondente del TG3, può darsi da Londra. Conclude questa sequenza di fogli vuoti un’ultima pagina su cui campeggia solitaria la parola Introduzione. Finalmente, a pagina 13, Curzi comincia a narrarci le sue avventure.
Nello stesso numero di pagine, intanto, Boy George ci ha raccontato le sue disavventure a scuola, quelle dei suoi genitori irlandesi e molto altro ancora. Ed è qui la differenza maggiore: Boy George ha avuto una vita sfolgorante. Incontrava David Bowie e Andy Warhol, Madonna e Diana Ross. Curzi ha trascorso un’oscura esistenza da giornalista prima per i quotidiani, poi in tivù al TG3 dove, al massimo, prendeva il caffé con Maurizio Man- noni o Mariolina Sattanino. Un po’ come quegli impiegati soffocati dalla routine che, operati alla prostata a 50 anni, fanno del racconto dell’inter- vento il loro cavallo di battaglia.
La prostata di Curzi si chiama Vittorio Cecchi Gori. Dal gennaio 1996 l’intera esistenza di Sandro Curzi si divide in a.C. e d.C. dove C. sintetizza il doppio casato dell’azionista di maggioranza di TMC. Questo libro è forse il culmine di quella serie di frenetiche attività presenzialiste in cui Curzi si è lanciato nell’era d.C. Opinionista da Costanzo, ospite di tavole ro- tonde, oggetto di interviste… Lui stesso ricorda all’inizio del pregiato vo- lume il fitto carnet di impegni in cui andava a ripetere che Cecchi Gori è un cafone, che ama licenziare, che lo riceveva mentre si faceva fare il pedicure. Il pubblico riconosceva gli aneddoti sin dalle prime parole e applaudiva, come si fa nei recital quando si riconosce già dalle prime note una canzone famosa.
L’incipit di Boy George suona all’incirca “sin da piccolo volevo assomigliareaShirleyBassey”.Curziesordisceparlandocidituttiqueglianonimi che lo fermano solidali per strada e che lui ha ribattezzato la gente. Ce n’è già abbastanza per chiedere indietro alla Mondadori le 25.000 lire.
Esaurita l’introduzione Curzi passa subito a parlarci di quello che più gli brucia: il suo rapporto con Cecchi Gori. Lo fa per 11 pagine e leg- gendo sembra di vederlo, con quella sua orripilante giacca giallo limone, che finge vergognosamente di essere sorpreso dalla telecamera mentre stava scrivendo a macchina. Sembra di sentirlo, con la sua gnagnera romanesca irta di pause. Una cadenza di cui lui stesso ci dice, esagerando, a pagina 62:
“…il mio accento romanesco, insopprimibile, ai limiti dell’intollerabile. Più tardi diventerà una griffe”.
Esaurite le astiosità contro VCG, Curzi si perde nei meandri della memoria, senza un filo logico, ma saltando da quando Boy Sandro scrisse a 14 anni il suo primo articolo all’esperienza a Radio Praga, da dove, pur- troppo, l’hanno subito rispedito in Italia, agli anni a RaiTre. Il tutto finisce con una lettera a un imprecisato nipote in cui la senescenza curziana tocca il sublime e snocciola una carrellata di commenti su alcuni personaggi po- litici. Insomma, forse il libro più inutile dell’anno, un’occasione in più per Curzi, soubrette mancata, di non scomparire dalla ribalta. Un libro fatto di tanti pezzi diversi, come quelle coperte patchwork, e altrettanto in grado di riscaldare. Cospargetelo appena di alcol e avvicinate un cerino.
Il miele delle foglie di Giuliano Zincone
Dice il risvolto di copertina de Il miele delle foglie (Marsilio, 20.000 lire) che l’autore, Giuliano Zincone, è nato a Roma il 20 dicembre 1939. Manca l’ora di nascita e senza questo dato non è possibile stilare un oro- scopo affidabile. Proviamo comunque.
Zincone è del Sagittario, simboleggiato da un centauro e quindi segno doppio: l’uomo (Zincone realizzatore di inchieste sul mondo del lavoro) e l’animale (Zincone che si intestardisce a comporre romanzi che paiono scritti sbattendo gli zoccoli a caso su una tastiera).
Il nativo del Sagittario è animato da una curiosità che lo spinge a compiere continui viaggi sia spirituali sia materiali. La curiosità di Zincone si limita a questa sconvolgente domanda posta a conclusione di un para- grafo del suo romanzo: “Dove vanno, dove finiscono le servette negre?”
La Luna in Ariete fa sì che Zincone abbia al suo fianco donne forti di cui diventa succubo. Ecco perché nel romanzo si sfoga, creando il per- sonaggio della madre del protagonista, Caterina, un’imbecille vacua fino ai limiti del surrealismo involontario, come quando di fronte al figlio lacero- contuso si limita a dire: “Cherchez la femme!”.
Venere in Capricorno e Saturno in Ariete indicano entrambi difficoltà nella comunicazione. Per 204 pagine Zincone cerca di dirci qualcosa,
ma noi riusciamo solo a intuire la storia di un ragazzo rimasto orfano, Paolo, che se ne va in Brasile, ma la comunicazione è talmente difficile che pare un servizio gestito da Telecom Italia.
Marte nei Pesci rende Zincone incapace di portare a termine le azioni intraprese. In effetti, benché Marsilio lo abbia compreso nella sua collana Farfalle, questo romanzo fa pensare a una metamorfosi incompiuta. Meritava dunque di apparire nella collana Bachi o, meglio, Bacarozzi.
Giove in Ariete è in quadrato al Sole. Questa posizione è indice di loquacità a volte (?) inopportuna legata a una certa faciloneria e a giudizi affrettati. Praticamente lo specchio della prosa di Zincone il quale prima crea la macchietta del pittore Francesco, padre di Paolo, quasi un Ciccio Formaggio dell’arte concettuale, poi ci regala l’immancabile sogno agitato del protagonista ricco di simboli psicanalitici da bancarella e infine condi- sce il tutto con zampate da maestro: “Le Volvo guaivano”, “Sei bellissimo, hai la faccia di Kafka”.
Concludo con una tripletta in grado di ridurre al silenzio qualsiasi avversario dell’astrologia. Nel tema natale di Zincone, Urano in Toro parla di creatività ridotta, e il romanzo è infatti povero di idee. Nettuno in Ver- gine simboleggia l’avversione ai cambiamenti, e il romanzo è quanto di più risaputo si possa immaginare. Plutone in Leone è causa di un eccesso di fi- ducia nei propri mezzi, e Zincone crede d’aver scritto un buon romanzo. Tanto che quando a pagina 16 dice “…così brutto che mi venne da piangere” si riferisce a un cappotto e non, come si potrebbe pensare, al suo libro.
Diario dell’assenza
di Carmen Llera Moravia
Diario dell’assenza di Carmen Llera Moravia (sic!) è pubblicato da Bompiani e costa 22.000 lire. E’ una scandalosa fetecchia spacciata neces- sariamente per libro. Infatti, non esistono ancora le fetecchierie così questa schifezza in forma di volume deve essere venduta nelle librerie. E siccome l’Archinto non pubblica ancora una rivista mensile che si chiami Fetec- chiare, la recensione di questa boiata deve apparire su Leggere.
Carmen Llera Moravia (sic!) condensa nelle 110 pagine della sua fe- tecchia il diario di una donna che mangia yogurt greco e noci e beve cham- pagne o tè, legge Márquez e ascolta musica sufi. Sembrerebbe il diario di una troia che riceve in casa a 500.000 lire a botta, perché nella narrazione non c’è traccia di frasi come “Oggi ho litigato con il capoufficio” oppure “La crisi sta facendo chiudere il mio opificio”. Invece la protagonista ci spiazza ammettendo: “Al sesso non penso mai. Lo faccio” (pag. 9). E intanto, per tutte le 110 pagine della fetecchia, ella continua a rimuginare i metri di cazzo che si è presa da un assente amante israelita, alternando questo lungo mugolio ninfomaniaco a descrizioni di una Roma da turismo povero del- l’Est europeo e a domande che come risposta meriterebbero solo una buona dose di schiaffi: “Perché vivo in maniera cosÏ assurda?” (pag. 10), “Ma le donne sono capaci di scrivere libri erotici?” (pag. 8), “Non mi farà male tanto sperma?” (pag. 109).
Quasi eccessive quanto i punti di domanda, sono anche le stucchevoli citazioni in francese. Necessario il ricorso a un’altra lingua, poiché la spagnola Carmen Llera Moravia (sic!) ha davvero poca dimestichezza con l’italiano. Lo dimostra a pagina 45, dove dice: “Mi alzo e mangio un philadelphia”. Se Carmen Llera Moravia (sic!) conoscesse davvero la nostra lin- gua, avrebbe saputo che si dice la philadelphia. Infatti, nei testi classici, che la fetecchiatrice ispanica ignora, Kaori dice “Philadelphia unica”.
In realtà credo che gli unici testi italiani che Carmen Llera Moravia (sic!) abbia letto sono le annate di Pop e Le Ore. La sua fetecchia sembra in- fatti la copia diretta dei servizi di quei pregevoli giornali pornografici. Solo che Carmen Llera Moravia (sic!), come si legge anche nel risvolto di co- pertina, ha in odio la “volgarità che invade le strade”. E allora ripulisce la sua scrittura. Intendiamoci, con l’israelita lontano non fa altro che trom- bare, ma lo fa con scelte lessicali che (lei crede) ben si armonizzano con i Parioli e lo champagne.
Carmen Llera Moravia (sic!): lei davvero ritiene di non essere vol- gare solo perché dice prendermi da dietro invece di pecorina? Perché dice sperma invece di sborra? Perché dice sesso invece di cazzo? No, Carmen Llera Moravia (sic!). La vera volgarità non sta nelle parole, ma nei fatti. Sta nel suo stesso diritto a pubblicare simili stronzate restando impunita, mentre meriterebbe, mi consenta la citazione che le riporta un po’ di colore del suo Paese natio, di essere garrotata.
Si alzi ogni mattina e ringrazi il Cuore di Gesù per il destino che le è stato concesso!
Un destino fin troppo benevolo che ha fatto sì che lei diventasse scrittrice e non quello che avrebbe meritato: ossia parrucchiera strabica, sarta con l’alitosi, commessa all’UPIM con i calli, rivenditrice Avon con portafogli clienti pari a zero, peripatetica nigeriana, profuga di Bosnia, suora missionaria colpita dall’ebola, ragazza dello zoo di Berlino…
Quello stesso destino le ha spalancato le porte della Bompiani, casa editrice che invito i lettori a subissare di pernacchi e insulti e che, non contenta del buco miliardario di cui soffre il suo gruppo RCS, pubblica questo angosciante delirio di una vagina in fiamme.
Quello stesso destino le ha riservato il dì 20 giugno 1996 una recensione favorevole sulle pagine culturali di la Repubblica a firma di quella gallina padovana della critica letteraria italiana che va sotto il nome di Barbara Palombelli.
Piazza della libertà di Francesco Rutelli
SPQR (Scrive Pirlate Questo Rutelli).
William Wordsworth visitò Francia, Italia e Germania. Tutto a piedi. Diversi anni dopo, ritiratosi nel Lake District, si dedicò alla recollection in tranquility, ossia al ricordo, nella tranquillità, dei suoi anni di azione.
Gertrude Stein arrivò a Parigi nel 1902, conobbe i più grandi artisti dell’epoca. Solo nel 1932 pubblicò l’Autobiografia di Alice Toklas.
Francesco Rutelli, eletto sindaco di Roma il 5 dicembre 1993, non ha fatto passare nemmeno tre anni e già ha ceduto alle lusinghe delle mémoires, pubblicando un resoconto della sua avventura di sindaco intitolato Piazza della Libertà (lire 27.000, editore, chiedo scusa io per loro, Mondadori). Un po’ presto, forse. Certo, Hitler scrisse il Mein Kampf nel 1925 e andò al potere nel 1933. Ma quello era un libro programmatico, mentre questo è solo un libro disgustoso.
Vero autore del libro è tal Paolo Gentiloni, al quale Rutelli deve aver dettato l’opera; come non pensare alla scena epocale di Totò e Peppino intenti nella stesura di una lettera?
Il volume appare nella collana Frecce e, al di là della facile battuta che vede nel nome una r di troppo, si pone come iniziatore di una nuova corrente letteraria: l’autoagiografia.
Bontà. Bontà infinita trasuda dalle 200 pagine di questo libro. Un sindaco amato, idolatrato, glorificato. Aggettivi trionfalistici come favoloso, clamoroso, grandioso, eccezionale costellano quasi ogni pagina. Gli esor- tativi Facciamo! Cambiamo!, su modello degli insostenibili davaite! russi, si sprecano. Che sindaco! Le vecchiette lo invocano, la ggente de borgata lo accoglie a braccia aperte, i bambini Rom gli scrivono lettere indirizzate a “Babbo Natale – per il sindaco Rutelli – Campidoglio” (pag. 103). Insomma, Francesco Rutelli, con i suoi grasitas de Trastevere, è la vera reincarnazione di Evita Perón. Ma allo stesso tempo, Ciccio Rutelli si dichiara uomo co- mune. Un uomo che non si vergogna di apparire nella foto in quarta di copertina con una camicia stazzonata che invoca, urlando, uno spruzzo di Stira e Ammira.
Rutelli si narra con la stessa enfasi riservata ai santi. Ma anche ai poeti e ai navigatori. Già nel prologo il quasi architetto Rutelli tradisce le troppe visite all’EUR: “Sono italiano e sono orgoglioso di esserlo. Di appar- tenere al paese che ha dato vita a grandi rivoluzioni di civiltà, intelligenza e cultura” (pag. 7).
La cultura rutelliana nasce dunque dalla strada. Ma anche dalle canzoni, dalla tv, dal cinema. Infatti, ogni elemento del soffocante ingorgo di banalità concentrato in questo libro rivela chiara la sua derivazione.
Musica: quando, a pagina 8, Rutelli scrive: “Eppure vanno avanti, animati da uno spirito nuovo, per costruire un’Italia migliore”, il pensiero va subito a Eros Ramazzotti che canta “Una terra promessa / un mondo diverso”.Epoi,leparoledipagina57:“Lalibertà(…)èstataperme(…)il passeggiare da solo in una città qualsiasi con una guida in mano e un pa- nino” non sono un plagio del manifesto programmatico dei coniugi Car- risi: “Felicità / è un bicchiere di vino / con un panino”? Rutelli è una pop star, come Michael Jackson. E come Jacko anche Ciccio si mimetizza: “…con occhiali scuri e cappellaccio percorro in incognito la città” (pag. 54).
Cinema: Rutelli a pagina 79, in visita alla borgata del Quarticciolo,
è seguito “da un gruppo di donne, che si è andato ingrossando via via: mi circondano, reclamano…”, quasi fosse una nuova Anna Magnani nei panni dell’Onorevole Angelina.
Pubblicità: la vera fonte di ispirazione di questo libro, e probabil- mente di tutta la filosofia rutelliana, sono gli spot. Pagina 13: “…fare il sin- daco: passione per la trasformazione del territorio, per l’ambiente, per rapporti sociali più equi e quartieri più vivibili”. Non sembra la réclame delle Fattorie Scaldasole? Pagina 8: “Certi guizzi non nascono per caso; e co- munque non bastano: ci vogliono idee chiare, serietà, rigore. E poi lavoro, lavoro, lavoro”. Diceva Walter Zenga in uno spot per un orologio nel 1989: “Per arrivare in Nazionale c’è voluto impegno, serietà, un lavoro duro”. Pa- gina 39: “Nicola Pierpoli (…) riunisce i suoi focus groups o convoca riu- nioni di brain storming…”. Derivato da: “Nel mio lavoro l’inglese è importante” (spot per i corsi di lingue a fascicoli della De Agostini).
Sensualità
di Stefano Zecchi
Per illustrare la copertina del nuovo romanzo di Stefano Zecchi, Sensualità (Arnoldo Mondadori Editore), ambientato a Calcutta e dintorni, è stato scelto Le amiche, un quadro datato 1924 del bolognese e novecentista Ubaldo Oppi. Follia pura? Ibrido postmoderno? No, calcolo furbetto.
1) Il quadro di Oppi ricorda quei quadri coevi (anche se spesso di Scuola romana, opposta a Novecento) che fanno da siparietto durante il Maurizio Costanzo Show.
2) Zecchi è ospite fisso dell’insostenibile talk-show.
3) Una simile copertina attira i fedelissimi di Costanzo i quali poi, riconoscendo in quarta di copertina il noto Esteta del Parioli, acquistano il libro. Una trappola diabolica.
Trama del romanzo: due donne, Giulia e Miriam, si trovano a Cal- cutta per motivi di lavoro. Per 160 pagine le due si girano in lungo e in largo l’India, Giulia a spese della sua ditta, Miriam a spese del suo giornale, contribuendo cosÏ all’aggravarsi delle crisi industriale ed editoriale italiane. Nei ritagli di tempo, oltre a intrecciare storie d’amore più o meno carnali, le due parassite si dedicano alla grande conversazione, parlando di temi elevati con frasi complesse e con parole non comprese nei 500 vocaboli di quel Basic Italian che tutti usiamo. Alla fine, Miriam muore in maniera
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piuttosto meschina, per una malattia epatica, invece di farsi aggredire da un bel morbo tropicale.
Cercare di leggere Sensualità è un’esperienza infelice, un percorso accidentato attraverso una prosa appesantita da troppi aggettivi messi prima dei sostantivi e disseminata di magniloquenze alla Lelouch che nascondono banalità sconcertanti (“il profondo mistero dell’esistenza” a pagina 3), improbabili fenomeni fisici (“la luce ancora abbagliante era spezzata dal vento”, pag. 8), allucinanti massimalismi da salone di barbiere (“Uno strano americano […] con una sua fede che non fosse il denaro” pag. 29).
A ricordarci che Zecchi riceve anche uno stipendio come professore di Estetica presso l’Università Statale di Milano, ecco che nel romanzo le pa- role bello e bellezza appaiono a ritmo continuo. Ancora più spesso che nel celebre Disco della bellezza vera di Elena Melik, il 45 giri che l’esperta di bellezza del settimanale Grazia incise nel 1970. Non perdete tempo a sco- prire debiti verso, che so, John Ruskin: è la Melik la vera ispiratrice estetica di Zecchi, che comunque con l’esteta inglese condivide l’odio per la civiltà industriale e per i suoi prodotti.
Design compreso: è nota l’avversione che l’autore de Il brutto e il bello prova verso il disegno industriale, da lui considerato non-arte, espressione bassa dell’ingegno umano, forse perché troppo legata all’uso quoti- diano. Il raffinato Zecchi di fronte alle teorie di Gropius fugge spaventato come se avesse visto il Babauhaus. Di tutto ciò c’è traccia anche in Sensualità: “Non c’era nessuna cura, tutto era pervaso dal cattivo gusto (…) la plastica che sembrava impadronirsi di ogni oggetto” (pag. 33). Con queste parole Zecchi descrive un aeroporto. Ma come dovrebbero essere gli scali aerei per il professore? Delle repliche del Vittoriale?
D’altronde cosa ci si può aspettare da una persona che fa dire a un suo personaggio: “Leggo molto sul’India e mi immagino un mondo mera- viglioso, emozionante, ma se confronto le cose scritte sui libri con quelle
che vedo… queste mi sembrano così squallide, miserabili…” (pag. 16). Proprio per non contagiarsi con quelle cose miserabili Zecchi forse non è mai andato in India. Deve aver assistito a una processione di conta- dine lucane. Poi ha elevato il tutto a un grado esotico più alto, sostituendo Shiva al santo patrono e il mori alle cipolle, sparando all’impazzata termini hindi con la sua Mont Blanc d’oro e crivellando l’extrastrong di descrizioni
ignobilmente turistiche della nobile patria di Kabir Bedi.
Anch’io ti amo
di Arrigo Cipriani
Presso alcune tribù di cannibali si crede che divorando il cervello del nemico se ne acquisiscano le doti di coraggio e intelligenza. Naturalmente non è vero. Così come non è vero che basta lavorare in un rinomato bar veneziano, frequentato in passato da scrittori etilici, per diventare a propria volta scrittori.
Quale antropologo è disposto a spiegarlo ad Arrigo Cipriani prima che il sessantaduenne direttore dell’Harry’s Bar decida di dare un seguito a questo Anch’io ti amo (Baldini & Castoldi, 20.000 lire)?
Vacuo fino all’imbarazzo, questo libretto di Cipriani fa tornare più chemaid’attualitàilquesitodiTotò:“Siamouominiocaporali?”E’proprio vero, al mondo non siamo tutti uguali, non tanto per le nostre qualità o per ciò che facciamo, ma per il modo in cui veniamo trattati.
Nel 1992, Gianni Borgna, un oscuro barman ormai in pensione, decideva di dar fondo alla propria liquidazione facendosi pubblicare (a pagamento, come d’uso) dalla Nuovi Autori un volume difficilmente qualificabile: conteneva poesie, ricordi professionali, aneddoti familiari, barzellette, fotografie e ricette per cocktail. Il tutto era legato dalla prima persona narrante e da un triplo orgoglio di essere, come recitava la copertina, poeta, barman e alpino.
Immaginiamoci l’uomo Borgna che invia il dattiloscritto a Baldini & Castoldi e se lo vede ritornare accompagnato da una letterina disgustata di qualche raffinata editor. E immaginiamoci, il giorno dopo, il postino che consegna un altro plico contenente questo lavoro del caporale Cipriani, con le stesse poesiole insulse, con gli stessi raccontini colitici e con lo stesso background di barman. E probabilmente con lo stesso passato di alpino, visto che il Cipriani è veneto e, come vuole il massimalismo, tutti i veneti di leva fanno gli alpini. Pubblicato!
Impossibile descrivere con precisione l’opera del Cipriani. La prima parte inizia con un’alternanza tra quattro capitoletti di una pagina sulla fine di un amore e tre lettere indirizzate a un tal Carissimo. All’improvviso ecco apparire il racconto di una passeggiata serotina e una poesia dedicata all’unica pelliccia che non ci si vergogna di indossare: “Nera sei soltanto / dove devi essere nera. / La selva dove si nascondono le labbra divine…”. La stessa musa (ma a Genova userebbero due esse) aveva già ispirato le pagine 27 e 28, in cui il Cipriani invitava la sua compagna a non lavarsi, al grido di “avrei preferito che l’acqua dell’acquedotto non passasse sotto quel ponte peloso dove io avrei voluto dormire per sempre”. A degna conclusione di questa rutilante prima parte ecco quattrordici pagine massacranti che nar- rano della morte della madre di un Cipriani-Camus che non sa commuo- versi davanti al cadavere.
La seconda parte ha un nome: Le storie. Tre storielle di imbecillità sublime, con la partecipazione strarodinaria di Dio, e nelle quali Cipriani narra della creazione dei ristoranti, dell’ecologia e dei pesci, condendole con un surrealismo da offerta speciale.
Infine, ecco la terza parte, Le bestie. Tra i sette raccontini che la compongono ne spiccano tre. La pantegana, un Kafka con data di scadenza superata da un bel po’. Il gabbiano, con due piloti, di cui uno muto, che conversano con il gabbiano Hans: una sorta di bidone della spazzatura in cui sono stati gettati appunti di Richard Bach, di Beckett e persino della
Traviata. Conclude la triade Il colombo, in cui un assessore di Venezia vuole cacciar via da piazza San Marco un colombo che lo interroga sull’amore. Viene in mente una vecchia canzoncina da avanspettacolo, cantata da due finti turisti tedeschi e dedicata proprio a piazza San Marco: “Fanno all’amore persino i piccioni e c’è un libraio che vende Goldoni”. Forse non dovevo usare la maiuscola.
Nessuno
di Luciano De Crescenzo Itaca per Sempre
di Luigi Malerba
Nell’era della comunicazione globale si verificano vuoti di informazione che fanno riflettere. Per esempio, alla Mondadori di Segrate due redattori, con le scrivanie che quasi si fronteggiano, hanno lavorato allo stesso libro l’uno all’insaputa dell’altro. Il primo era impegnato con una riscrittura dell’Odissea elaborata da Luigi Malerba e intitolata Itaca per sempre. L’altro editava una riscrittura dell’Odissea elaborata da Luciano De Crescenzo e intitolata Nessuno. Cosa abbia spinto la Mondadori a far uscire in contemporanea due libri uguali non potrà spiegarcelo nemmeno l’indovino Tiresia. Mi fa comunque piacere vedere che anche altri seguono la strada del remix letterario.
Iniziamo dal volume di Malerba, in libreria già da marzo. Per prima cosa una precisazione: non si tratta di un’omonimia, questo Malerba è lo stesso de La scoperta dell’alfabeto. Evidentemente un mutuo per la seconda casa, la voglia di una vacanza esotica, l’acquisto di un’auto nuova ha spinto Luigi Malerba a scrivere quest’opera per poter soddisfare l’improvvisa voglia con anticipi e royalties. Eppure esistono tante serie finanziarie.
Malerba compie una scelta precisa: decide di raccontare con parole sue solo il ritorno di Ulisse a Itaca, tralasciando la parte avventurosa del viaggio. Alquanto statica e riflessiva, la narrazione si scinde in una specie di doppio diario. Al punto di vista di Ulisse si alterna la visione dei fatti di Penelope. Se ad alcuno questa tecnica può ricordare un po’ Rashomon con un personaggio in meno, ai più ricorderà moltissimo Signore e signora il favoloso show di vita matrimoniale con Lando Buzzanca e Delia Scala. C’è comunque una novità sostanziale: questa Penelope sa che quel mendicante è Ulisse, ma fino al termine finge di non saperlo. Malerba confessa in chiusura di libro che questa idea è frutto delle meningi della moglie. Più che un’ammissione sembra una discolpa. Poco signorile, bisogna ammetterlo.
La tesi conclusiva del libro è comunque questa: Ulisse è il vero autore dell’Odissea e anche dell’Iliade. Tesi non sconvolgente: chiunque abbia vissuto l’esperienza di un rapimento, di un matrimonio infelice o di un lifting si sente in dovere di narrarla insieme a un compiacente giornalista. Figuriamoci se questo diritto non puà averlo avuto Ulisse con tutto quello che aveva visto, vissuto e combinato.
La cosa più oscena del libro resta però il titolo che al visitatore di- stratto di una libreria può far pensare alla storia di una giovane trans pa- lermitana, appassionata di letteratura classica e decisa a restare Itaca, Itaca per sempre. In realtà a conclusione del suo racconto Malerba fa promettere a Ulisse che resterà “a Itaca per sempre”. Sarebbe bastato mantenere il com- plemento di luogo per evitare il ridicolo. Ma la mente dei titolisti editoriali è tutta da analizzare.
De Crescenzo invece non fa nulla per evitare il ridicolo, anzi ci sguazza dentro, pensando di nuotare nel mare del comico. La sua revisione dell’Odissea, in uscita il 20 maggio, ha la stessa carica becera, raffazonata e volgare delle reinterpretazioni di classici della canzone napoletana eseguiti dal suo amico Renzo Arbore.
Un povero padre di famiglia, concorrendo a un posto da bidello,
doveva affrontare un esame di cultura generale. La prima domanda era: “Qual è la capitale della Grecia?” Il pover’uomo si agitava e boccheggiava, fino a che l’esaminatore, mosso a compassione, gli chiese: “Ma ‘nzomma, sta capitale ‘a Grecia, ‘a tene u nun ‘a tene?” “‘A tene!” rispose l’uomo, e venne subito promosso.
In questa veneranda boutade d’avanspettacolo c’è tutto il profondo rapporto tra Luciano De Crescenzo e la cultura greca cui egli ha dedicato volumi, fumetti, video, film, partecipazioni televisive.
Il paragone tra il nostro massimo divulgatore di filosofia classica e l’avanspettacolo non vuole essere irriverente. Già a pagina 12 del suo nuovo parto il De Crescenzo non riesce a trattenere la battuta che gli frulla in testa sin da Oi Dialogoi e che qui finalmente lascia esplodere in tutta la sua originalità: “quel tale Heinrich Schliemann che, a forza di scavare, di Troie (intese come città) ne trovò addirittura nove…”. E’ in questo ritorno alla prima media che più brillano le affinità elettive tra il fine umorista De Crescenzo e il maestro Arbore. Questa precisazione è un gioiello, quelle parentesi racchiudono tutto il buon gusto e tutta l’intelligenza dello “scrittore italiano più amato nel mondo”, come recitano le note per la stampa. E voglio vedere come i traduttori polacchi, giapponesi e hindi risolveranno l’arguto gioco di parole.
A inizio dell’opera, De Crescenzo ricorda che a quindici anni, affascinato dalla trovata di Ulisse che dice a Polifemo di chiamarsi Nessuno, voleva assumere anche lui questo nome. Ma il padre lo deluse dicendogli: “Ma pensa piuttosto a diventare Qualcuno…”. E’ da ammirare la testardaggine adolescenziale con cui il giovane De Crescenzo ha invece perseverato nel suo intento.
De Crescenzo/Nessuno ci racconta oggi tutta l’Odissea e in lui il poema diventa come una mozzarella light, come la Coca Cola allungata con l’acqua, come una maglietta D&G taroccata, come un candeggio sba- gliato, come una casa disegnata da un geometra. Un prodotto di seconda scelta, insipido e insoddisfacente.
Divulgare un testo o un’idea significa rendere chiaro, lineare e alla portata di tutti qualcosa che invece è complesso e pensato per un pubblico di esperti. Divulgare non significa tracciare paragoni improbabili e sempli- cistici tra il testo originale e ammiccanti riferimenti all’attualità. Il modo in cui De Crescenzo si ostina a voler far comprendere i grandi meccanismi filosofici e letterari all’ipotetico portinaio Raffaele è offensivo per tutti, non solo per i portinai.
Qualità è spesso un termine insidioso. Finché si tratta di minuteria metallica o sedute ergonomiche ci sono le certificazioni ISO che garantiscono la qualità totale. Ma quando si tratta di scrittura le certificazioni vengono a mancare e dobbiamo arrangiarci da soli.
Basta una lettura a campione dei due testi per accorgersi di cosa possa essere la qualità letteraria: misura, uso corretto dei termini, rifles- sione, rifiuto dell’effetto facile.
Tutte caratteristiche che la prosa di Malerba comunque conserva, mentre quella di De Crescenzo non ha mai conosciuto.
Viaggi nel tempo immemore di Roberto Vecchioni
Roberto Vecchioni è noto (in rigoroso ordine di capacità) come cantautore, come professore liceale di italiano, come fumatore di sigari e ora anche come scrittore poiché ha pubblicato Viaggi nel tempo immobile (Einaudi, 123 pagine, 16.000 lire).
Per un certo periodo, verso la fine degli anni Settanta, l’autore di Tornerai Tornerò (hit degli Homo Sapiens) tenne, forse sul Corriere dei Ra- gazzi, una rubrica di piccola posta. A un ragazzo che scriveva “I programmi scolastici non mi soddisfanno. Potrebbe consigliarmi qualche libro da leg- gere al di fuori delle lezioni?” il giovanilista Vecchioni rispondeva: ́Ma per- ché vuoi leggere con tutto quello che potresti fare? Perché non suoni? Perché non pratichi qualche sport? E le ragazze? Non dirmi che non ti in- teressano”.
Dunque, qui si predica bene, ma si razzola malissimo: Vecchioni che fai? Consigli ai ragazzi di non leggere e poi ti metti a scrivere un libro? Ma perché, invece di leggere, non impari a suonare (finalmente) qualche strumento? E perché non pratichi qualche sport debilitante? E le donne? Perché, invece di scrivere, non sei andato a farti un giro tra le lucciole a San Siro?
Editore naturale del volume sarebbe dovuto essere Bignami, visto che si tratta solo di un bigino nozionistico in cui, con la tenue scusa della narrazione, ci sfilano davanti alcuni tra i personaggi, i nomi e le situazioni più banali della cultura mondiale.
“A te, tempo immobile nel mio cuore” recita la dedica posta da Vecchioni all’inizio dell’opera. Già l’uso di parole “importanti” (tempo, im- mobile, cuore) è una traccia: la scrittura di Vecchioni non compie direttamente il percorso dal cervello alla mano vergante o digitante, ma tra i due estremi si fa un lungo giro nei regni del già detto, del già letto, del già visto, nelle regioni della cultura liceale, nelle lande della Contaminazione Preterintenzionale, meta ormai di moda per i viaggiatori organizzati del fighettismo letterario. Infatti, accanto a Cervantes e a Ulisse troviamo anche Zio Paperone, scelta che non è frutto di una libertà creativa che trascura piani e livelli, ma semplicemente uno stratagemma di Vecchioni che tenta disperatamente di lottare contro l’immagine del professore trombone, immagine che nessuno comunque gli ha mai cucito addosso.
L’esordio è fulminante: l’immortale Teliqalipukt, voce narrante dei racconti, decide di allevarsi la propria scolaresca di immortalini esordienti. Vedere in questa rappresentazione il professor Vecchioni che trasmette la sua sapienza agli studenti è tanto facile, quanto disgustoso. Una decina di righe bastano per presentare la classe e qui ai nomi più improbabili come Misha, Minbar, Canaar, Vesca si accompagnano descrizioni di una banalità paralizzante (“delicato e fragile… il più entusiasta… sempre fuori tema”). Bravo comunque Vecchioni a mescolare fumetto fantascientifico da Lan- ciostory ai cascami deamicisiani. Peccato non sia questa la sua intenzione.
Favoloso il racconto su Alessandro Magno, il cui nome è scritto alla rovescia nel titolo del racconto (zampata d’autore!). La Storia così come la riscriverebbe in un suo tema un qualunque primo della classe, con in più invenzioni linguistiche sorprendenti. Lo sapevate che la Luna sta in cielo per sfarfallare, adombrarsi, schiarirsi, intagliarsi, sfriccicare, perire?
Ma il racconto che più si segnala per lo sfacciato cialtronismo massimalista è Significante e significato. Protagonista è la semantica, disiciplina che Vecchioni pare aver acquisito sui fascicoli settimanali della Hobby & Work (avendo perso però i numeri dal 2 al 56). E visto che siamo su una nave che parte da Odessa, Robertoski Vecchionoff non perde occasione di disseminare la trama di nomi orecchiati come Vasilij o Fiodor Rachmaninov Izvania, originalissimo conte nichilista in fuga. Delizioso il finale di questo racconto: al termine di una becera storia di omicidi, zar e truffatori, il noto linguista Ferdinand De Sassure, anch’egli su quella nave, si sente “il cuore e la mente trafitti da un bellissimo giambo”. Ah, il fascino dei ritmi afrocubani…
Ti amo
di Francesco Alberoni
OsteriadelVecchioAdamo -paraponziponzipo’ Alberoni ha scritto “Ti Amo” – paraponzi ponzi po’ pubblicato da Rizzoli,
presentato poi al Parioli…
Refrain
Daghèla ben Giannetta, daghèla ben Giannà…
Osteria dei Due Caprioli – paraponzi, ponzi po’ Quant’è furba la Rizzoli – paraponzi ponzi po’ ti fa uscire il calepino
proprio per San Valentino
Osteria del Dolce Incanto – paraponzi ponzi po’ Questo libro vende tanto – paraponzi ponzi po’ se lo compran come il pane
sono proprie cose strane!
Osteria del Bell’ovetto – paraponzi, ponzi po’ Questo libro non l’ho letto – paraponzi ponzi po’ l’ho sfogliato ma non tutto,
è davvero troppo brutto
Osteria del Ferro e Fuoco – paraponzi ponzi po’ Dire brutto è ancora poco – paraponzi ponzi po’ Che banale, che scemenza
E la fan passar per scienza.
Osteria del Gran Cipresso – paraponzi ponzi po’ fo’ la critica lo stesso – paraponzi ponzi po’ tanto i libri del Francesco
li diffida anche l’UNESCO
Osteria della Peppina – paraponzi ponzi po’ dai, leggiam la copertina – paraponzi ponzi po’ se si leggono i risvolti,
si rimane un po’ stravolti
Osteria delle Beote – paraponzi ponzi po’
quanto incensan queste note – paraponzi ponzi po’ sì, reclamizzar bisogna,
ma qui siamo alla vergogna…
Osteria delle Tre Mogli – paraponzi ponzi po’ questi son 300 fogli – paraponzi ponzi po’ spreca inchiostro a non finire
ma cos’è che avrà da dire…
Osteria del Buon Approdo – paraponzi ponzi po’ ecco come allunga il brodo – paraponzi ponzi po’ lui per tutti i sostantivi
usa sempre due aggettivi
Osteria di Cecco e Berta – paraponzi ponzi po’ ora ho fatto una scoperta – paraponzi ponzi po’ nelle note in copertina
si rilegge la doppina
Osteria dei Frati Oscuri – paraponzi ponzi po’ siamo certi, siam sicuri – paraponzi ponzi po’ che le note di ‘sto pacco
son farina del suo sacco
Osteria dell’Uomo Stanco – paraponzi ponzi po’ Quanto cita il nostro Franco! – paraponzi ponzi po’ Cita Goethe e Sandra Milo
che alla fin si perde il filo…
Osteria del Detto Astruso – paraponzi ponzi po’ L’Alberoni è un po’ deluso – paraponzi ponzi po’ lui collabora ai tabloid
ma vorrebbe essere Freud…
Osteria del Grosso Bove – paraponzi ponzi po’ L’Alberoni fa le prove – paraponzi ponzi po’ Lui ci prova ma, por’omm,
non riesce ad esser Fromm…
Osteria del Voltafaccia – paraponzi ponzi po’ han trovato un’altra traccia – paraponzi ponzi po’ dice bene e non si sbaglia
chi ci vede anche Buscaglia
Osteria del Karkadè – paraponzi ponzi po’ quante son le note al piè! – paraponzi ponzi po’ le ho contate e le ho rilette
son ben cento ottantasette!
Osteria del Can che Esulta – paraponzi ponzi po’ Franco fa reclame occulta – paraponzi ponzi po’ nelle note, (cosa vuoi…)
cita sempre i libri suoi
Osteria del Trono Regio – paraponzi ponzi po’ Alberoni ha un solo pregio – paraponzi ponzi po’ I suoi libri da caffè
Piaccion tanto alla Bertè
Osteria del Buon Nonnetto – paraponzi ponzi po’ Loredana c’ha un difetto – paraponzi ponzi po’ che fra tanti libri buoni
ama quelli di Alberoni!
I testi sono di Tommaso Labranca,
ma non sono coperti da nessun copyright. Sono stati originariamente pubblicati sulla rivista Leggere
tra il 1995 e il 1996.
Questa versione elettronica (V_1.0), creata il 4 giugno 2008,
è stata scaricata liberamente dal sito www.tommasolabranca.eu
e può essere diffusa senza alcuna limitazione. Ammesso che valga la pena farlo.
Viva l’editoria! Viva la Mondadori!